Lia Courrier e il fattore di protezione…ma non dal sole

di Lia Courrier
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Ogni tanto, mentre insegno danza, mi rendo conto che tutta la mia attenzione è rivolta alla classe: osservare i danzatori, dare le correzioni, conteggiare la musica e tutta quella vasta attività estroversa, a livello fisico e cognitivo, che viene costantemente richiesta a chi copre questo ruolo.

Durante i primi anni di esperienza lavorativa da insegnante, ero solita danzare insieme agli allievi, me ne stavo sempre lì davanti a loro, cercando di correggerli dallo specchio, mentre mi sfinivo eseguendo le sequenze con ogni gruppo, per tutta la lezione. Probabilmente tentavo inconsciamente di compensare la mancanza di strumenti didattici e pedagogici, che ancora non avevo avuto la possibilità di sviluppare, con la convinzione che gli allievi potessero apprendere i movimenti attraverso la semplice imitazione.

Con il tempo mi sono resa conto che danzare continuamente con loro non aveva alcuna utilità, che le competenze riguardanti la gestione del corpo in movimento non potevano essere trasmesse così, e che questo mio atteggiamento addirittura danneggiava gli allievi, dal momento che potevano sempre fare affidamento su di me per ricordarsi le combinazioni, inibendo la propria capacità di memorizzazione.

Ho lavorato moltissimo su questa mia tendenza ad annullare la mia persona nel concedermi completamente alla classe, e credo che questo cambiamento sia stato un passo fondamentale per costruire un metodo d’insegnamento degno di questa definizione. Essere presente nel mio corpo e in quello che faccio, soprattutto quando non danzo ma semplicemente osservo, non è importante soltanto per gli allievi, che in questo modo riescono a sentirmi e vedermi davvero, ma è importante soprattutto per proteggere il mio corpo da un lavoro eseguito senza una essere totalmente presente nel movimento. Noi insegnanti facciamo un mestiere molto duro fisicamente: mentre gli allievi prendono la classe, riscaldando progressivamente muscoli e articolazioni, noi spesso eseguiamo gli esercizi solo da un lato, a volte cimentandoci nella dimostrazione del modo scorretto di eseguire i movimenti, ripetiamo un passo mille volte, saltiamo quando le nostre gambe non sarebbero proprio pronte per farlo, slanciamo i nostri grand battements ancora e ancora, magari sempre con la stessa gamba. Questo è un atteggiamento nel quale, credo, possiamo riconoscerci tutti, sempre concentrati sugli allievi e sul lavoro, con l’ossessione di essere fraintesi o non compresi. Per questo continuiamo a muoverci, perché quello del corpo è il linguaggio che conosciamo meglio e spesso ci sembra più efficace di mille parole.

Gli allievi invece hanno bisogno della comunicazione verbale, di essere guardati e visti, di essere corretti e soprattutto di essere guidati attraverso il tocco. Tutte cose, queste, che non si possono fare quando si è impegnati nel movimento in prima persona. Negli anni ho imparato a mostrare gli esercizi giusto un paio di volte, a destra e sinistra, cercando di eseguirli con molta precisione e nel modo più neutro possibile, focalizzando la mia attenzione sull’esecuzione e sull’essere presente nel mio corpo, in quel momento, per poi rientrare nel mio ruolo mettendomi di fronte a loro per parlare, osservare e toccare. Questa attitudine del maestro che mostra senza mostrarsi, molto sana a mio parere, diventa anche un fattore di protezione che consente di non danneggiare il corpo con un lavoro asimmetrico o troppo intenso per la condizione del momento. Al di fuori delle lezioni un training fisico di qualsiasi tipo, per me è l’ amato yoga, riequilibra le forze che attraversano il corpo, mi riconnette con la simmetria, con il respiro e con l’impagabile e rilassante sensazione di essere guidati anziché dover condurre.

Probabilmente tra voi lettori ci sono colleghi per cui tutte queste cose sono ovvietà, ma per me raggiungere questa consapevolezza è stato il risultato di una lunga indagine e di una storia di approfondimenti, studi e ore di osservazione alle classi dei colleghi.

Negli anni mi sono resa conto che spesso, nel nostro lavoro, MENO è sinonimo di MEGLIO. Nonostante mi consideri una persona tendenzialmente pigra e procrastinatrice, in questo caso per MENO non intendo moderatamente o all’insegna del risparmio, quanto piuttosto osservare una certa attitudine ad alleggerirsi del superfluo, togliere orpelli, spogliarsi di ogni ornamento e finzione per lasciare all’essenza la possibilità di emergere. Nell’insegnamento della danza, questo processo implica il dare poche indicazioni, semplici e precise, ripeterle più volte sempre con le stesse parole, oculatamente scelte, lasciando all’allievo il tempo per comprenderle profondamente, prima di passare oltre. Trasferire concetti legati al movimento, e quindi derivanti da una esperienza fisica, attraverso il linguaggio verbale, è qualcosa di molto complesso ma che diventa una competenza straordinariamente necessaria, a mio parere, per ogni insegnante di danza, coreografo o chiunque si occupi di lavorare con il corpo. Ciò che proviamo quando danziamo è qualcosa di molto soggettivo, ed è necessario astrarre quelle sensazioni, portandole ad un altro livello di consapevolezza, dandogli la forma di un concetto impersonale per renderle accessibili a chiunque.

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