Luciana Savignano: semplicemente… una stella

di Francesco Borelli
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Pensare a Luciana Savignano non è cosa semplice…Il pensiero medesimo è in sé sfuggente e troppo grande perché sia compreso. Si potrebbe pensare a una stella della danza, certo: ma è riduttivo! Ad una divinità lunare, forse. La luna, però, si contempla, è inafferrabile. Luciana è molto di più. Forse, a volte, non bisogna eccedere in strane elucubrazioni. In alcuni casi è necessario limitarsi ad osservare la realtà e pensare che in fondo, la persona che abbiamo davanti è, appunto, una persona. Una donna. Semplicemente una donna. Straordinaria, unica nel suo genere, artista oltre la danza. Ma una persona. Malinconica e sfuggente, capace di ridere di cuore. Fragile, ma forte e determinata. Un’amica cui, seduti sul divano di casa, confideresti ogni tuo pensiero. Perché lei ti ascolta. Nella sua grandezza, ti guarda, ti abbraccia e ti fa credere di essere un po’ speciale anche tu. 

Quali sono i motivi che, da bambina, ti hanno spinto a frequentare la Scuola di Ballo del Teatro alla Scala? 

Fu mio padre a portarmi alla Scala per assistere a una rappresentazione de Il Lago dei Cigni. Mi ritrovai, inaspettatamente, in un mondo magico. Con gli occhi innocenti di una bimba, mi sembrò di essere entrata in un meraviglioso castello fatato. E fu sempre il mio papà a propormi di provare a studiare danza. D’altronde non ero certo una ragazzina tranquilla: non stavo mai ferma, ballavo, mi agghindavo, facevo teatro. Avevo un bisogno fisico di muovermi e danzare. 

Ti ricordi il primissimo giorno in teatro? 

La mia prima volta fu il giorno delle selezioni. Eravamo in tantissime. L’insegnante era Esmée Bulnes. Ricordo che mi si avvicinò e mi prese una gamba, alzandola. Io non avevo la minima idea di cosa fosse la danza, ma la gamba non smetteva di salire. Così mi presero. Non avevo però alcuna consapevolezza delle mie qualità fisiche. Per me certe caratteristiche erano la normalità. 

Che bambina eri, Luciana? 

Stavo sempre in disparte. Mi nascondevo. Mi sembrava di non essere mai all’altezza di ciò che mi si chiedeva di fare. Mi sentivo spesso inadeguata. E ho provato queste sensazioni per tutto il tempo della scuola di ballo. E non solo. 

Quando hai capito che invece eri tutt’altro che inadeguata? 

Fu quando Mario Pistoni, ballerino meraviglioso e coreografo forse mai capito fino in fondo, mi scelse, fra tante, per un piccolo ruolo in un suo balletto. Poi la conferma arrivò con “Il Mandarino meraviglioso”, e tutto cambiò. Mi sentii molto orgogliosa, perché una persona che stimavo si era fidata di me. Grazie a lui acquisii maggiore sicurezza. Ricordo un aneddoto divertente. Durante le prove mi disse di sciogliermi i capelli. Era come se mi avesse chiesto di spogliarmi. Oggi questo ricordo mi fa sorridere molto. 

Che ricordi hai dei tuoi anni alla scuola di ballo della Scala? 

Ho solo pensieri belli. Forse perché stavo lì in punta di piedi, osservavo, tutto ciò che mi accadeva, mi sembrava meraviglioso. Non sono mai stata mossa dall’ambizione di diventare prima ballerina o étoile. Danzavo perché amavo danzare.   

Le sensazioni che provavi allora sono cambiate nel corso degli anni? 

A tutt’oggi, quando sono in scena, provo le medesime sensazioni di allora. È come se entrassi in un mondo solo mio. Come se fossi sospesa in una dimensione nei confronti della quale provo anche un po’ di gelosia. Gli altri, il pubblico, vi entrano di riflesso. 

Il mondo di cui parli è realmente solo tuo. Tra tante danzatrici tu hai caratteristiche che ti hanno resa unica. Come te, nessuna. Ti ritrovi in queste parole? 

Ho sempre avuto la fortuna di essere un soggetto a se stante, e forse, per questo motivo i coreografi erano incuriositi. Se c’era un balletto cui dare un’impronta diversa dal solito chiamavano me. E non esistevano altri cast. 

Mi racconti il tuo “Lago dei Cigni”? 

Anche quello fu una bellissima scommessa. Fino a quel momento avevo interpretato ruoli molto moderni. E diedi al personaggio quel pizzico di animalità che secondo me era necessario avesse. Il mio cigno era assolutamente mio. Mezzo cigno, mezzo donna. Non si poteva essere solo un danzatrice. Bisognava essere anche animale. E lo ricordavo con un gesto, con un movimento del collo, con uno scatto. 

Prima ballerina nel 1972 poi étoile nel 1975. Che importanza hanno avuto tali nomine nella tua carriera? 

Per me era importante essere, interpretare un ruolo. Tutto il resto è arrivato senza che lo cercassi. Non ho mai chiesto nulla. Danzavo per il piacere di danzare. Se le cose mi son piovute addosso è stato perché ho amato la danza, l’ho rispettata, e non l’ho mai tradita. 

Se pensi a tutta la tua carriera, quali sono le componenti che hanno reso possibile una vita cosi straordinaria? 

Ciò che è stato importante, per me, è stato incontrare delle persone che hanno creduto nella mia danza e nella mia unicità. Paolo Grassi per esempio, uomo di teatro straordinario, volle me per il suo “Lago dei cigni”. E poi Mario Pistoni, Béjart, Micha Van Hoecke e tanti altri. 

Nella biografia di Valeria Crippa si parla di una lunga iniziazione. Ci spieghi perché? 

Non mi piace la parola carriera. La danza è stato il mio modo di stare al mondo. Il mio modo di far sì che questo mio passaggio nella vita lasciasse emozioni a me e alle persone che mi hanno voluto bene.

Pensi di esserti emozionata sempre? 

Sempre. Anche adesso che parlo con te. 

Mi racconti la sera in cui ti sei sentita più felice? 

Ci sono state tante serate indimenticabili. Di certo la prima de “Il Lago dei cigni” di cui parlavamo prima. Per me fu une vera scommessa con me stessa. Non volevo deludere le persone che avevano avuto fiducia in me. In platea, ricordo, c’era mio padre, che mi vedeva in un ruolo classico per la prima volta. Mi sentivo orgogliosa di poter donare a lui la mia prova sul palco. E poi qualche anno fa il Teatro alla Scala dedicò una serata a Paolo Bortoluzzi. Io danzavo una creazione di Micha Van Hoeche. Il teatro era immerso nel silenzio e nel buio uscivo con un lumino acceso. È partito un applauso che mi è sembrato eterno. Mi sono sentita piena d’amore. 

Da danzatore ho visto tanto di te. E prima ancora del tuo strepitoso “Bolero”, ho visto “La Luna”.

La Luna è un vero gioiello. Maurice lo cucì addosso a me. Rispecchia esattamente quello che io sono. Serenità permeata di malinconia. Porgersi e nascondersi. Determinazione mista a grazia. Se qualcuno mi chiedesse di definire in danza ciò che sono direi di guardare “La Luna”. 

Quando Béjart ti chiamò per lavorare con lui eri pienamente consapevole di ciò che ti stava accadendo? 

Ero consapevole della sua grandezza ma non avevo idea di ciò che avrei fatto. La mia prima esperienza con lui fu “Nona Sinfonia”. Dovevo reinterpretare un ruolo ricoperto, fino a quel momento da Tania Bai, danzatrice meravigliosa. In sala era anonima, in scena unica. Si illuminava. E in questo risiede la grandezza dell’artista. 

Ti ritieni una persona malinconica? 

Si. Ma la mia malinconia è dolce. Serena. Spesso mi perdo nei miei bei ricordi. Ma guardo al passato in maniera positiva. Il mio vissuto è ciò che sono oggi. Nella danza che ho interpretato c’è tutta la mia vita. 

Guardando dal di fuori il tuo vissuto come definiresti la tua vita? Credi di avere vissuto anni straordinari? 

Straordinaria no…è un termine esagerato. Di certo una vita diversa, non banale. Sono soddisfatta di ciò che ho fatto. Forse a volte avrei potuto fare scelte diverse. Ma non ha senso pensarci. Non serve a nulla. La mia vita non cambierebbe. 

Mi racconti del tuo rapporto con Mario Pistoni? 

Io lo ritenevo dio in terra. Credevo in lui, infinitamente. Mi sono “buttata” in lui e mi ci sono affidata. Mantenendo, ovvio, la mia personalità. 

Ti sei mai sbagliata con le persone? 

A volte è capitato. E si creano ferite che rimangono dentro per sempre. Ma non posso rimproverare nulla a nessuno. Sono io che dovrei essere meno ingenua. Ma si può realmente cambiare fino in fondo se stessi? 

Luciana Savignano e Maurice Béjart. Due mostri sacri del mondo del balletto si incontrano e scrivono la storia della danza. Com’era il vostro rapporto sul lavoro? 

Solitamente ciò che mi proponeva era, per me, accettabilissimo e tentavo di seguire le sue indicazioni. Però se capitavano movimenti che non mi si confacevano totalmente, li cambiavo rispettando le sue direttive. E a lui piacevano. Lavoravamo in simbiosi. Un pezzo di vita davvero straordinario.

Arriviamo al tuo indimenticabile “Bolero”.

Ricordo di aver ballato il primo a Lione. Poi infinite repliche. Ogni sera era diverso. Ogni recita, una nuova emozione e un nuovo modo di viverlo. 

Tu hai vissuto gli anni d’oro della danza. Sei stata, sei tuttora e rimarrai per sempre un’icona del balletto mondiale. Quant’è cambiata la danza oggi rispetto a qualche tempo fa? 

C’è molta meno magia. Oggi c’è più bisogno di stupire. Gambe più alte, più pirouettes. Ma quando finisce lo stordimento, cosa ti rimane? La danza non è solo tecnica. È piedi misti all’anima. Pensiamo alla Callas. Forse meno pulita di altre. Ma chi ha lasciato l’impronta? Chi rimarrà per sempre? 

Tu pensi di averla lasciata l’impronta? 

Non lo so. Per me è importante incontrare persone che mi ringrazino per aver regalato loro delle emozioni. Questa è l’impronta che mi interessa lasciare. 

Sono passati tanti anni dalla morte di Nureyev. Che ricordi hai di lui?

Era un artista unico e grandissimo. Quando entrava in scena, si avvertiva una presenza straordinaria. Era tecnicamente perfetto ma ciò che faceva la differenza era il suo sguardo, le sue braccia. Una personalità eccezionale, oltre la danza. Non l’ho frequentato molto al di fuori del teatro perché avevamo due repertori diversi, ma si diceva avesse un carattere difficile. Forse aveva solo necessità di difendersi. 

Tu hai mai dovuto difenderti? 

Che fastidio mi ha dato dovermi difendere. Per fortuna, però, ho trovato lungo la mia strada, persone che mi hanno difesa. Che mi hanno protetta. Probabilmente capivano che ero indifesa. E lo sono ancora oggi. Apparentemente sembro una donna forte, volitiva, determinata. E in parte lo sono. Ma al contempo sono fragile. 

Altri due coreografi che hanno accompagnato la tua carriera sono stati Micha Van Hoecke e in ultimo Susanna Beltrami. Ci parli del tuo rapporto con loro? 

Micha lo conosco dai tempi di Béjart. Lui era direttore del Mudra e io ero in compagnia. La nostra collaborazione è durata tantissimo. Ed è stata fruttuosa. E poi il suo linguaggio coreografico era simile a quello di Maurice. Altro magnifico rapporto è quello che mi lega a Susanna. C’è grande rispetto reciproco e mi lascia molto libera di dare ai personaggi che interpreto, le caratteristiche che ritengo più opportune. E’ molto difficile che una corografia parta da me. Però poi amo mettermela addosso. Come un abito. Ho bisogno di sentirlo mio. E lei mi lascia fare. 

Se una giovane danzatrice venisse da te a chiederti come diventare Luciana Savignano?

Essere qualcun altro è impossibile. Bisogna fare le cose con coscienza e essere se stessi. Questo rende unici. 

È proprio vero. Le persone sono semplicemente persone. Mangiamo, beviamo e respiriamo tutti allo stesso modo. È anche vero, però, che alcune sono speciali. E Luciana è magica. Emana una forza e una bellezza ultraterrene che fan pensare alla vestale di un tempio, alla regina di un mondo di eletti in cui ogni gesto racchiude un significato, ogni respiro è anelito verso l’infinito, verso ciò che non si può raggiungere. Perché unico. Seduto su quel divano ho capito cosa significa esistere in maniera diversa. Da stella. Inimitabile, speciale, ed eterna.

 Crediti fotografici: Alessio Buccafusca

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