Anna Maria Prina: severa e tenera, la donna oltre la danza

di Francesco Borelli
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Esistono persone che attraversano la vita in maniera talmente straordinaria da lasciare un segno, un’impronta che rimane e che, col passare degli anni, diventa sempre più profonda. Esistono persone che, dotate di talento e determinazione, rendono ogni attimo speciale, creando cose speciali per sé e per gli altri. Esistono persone che, indirettamente a volte, costituiscono un esempio, e ti fan capire che solo con l’impegno e la dedizione si possono ottenere le cose. Esistono persone che si chiamano Anna Maria Prina.

Signora Prina, lei ha una storia lunghissima piena di pagine tra loro molto diverse. Ma, in assoluto, nell’immaginario collettivo è stata la più grande direttrice della scuola di ballo del Teatro alla Scala. Ci racconta come arrivò a ricoprire questo ruolo?

Per me, in realtà, c’erano altri progetti. Sarei dovuta diventare nel ’72 l’assistente del direttore del corpo di ballo, John Field, meraviglioso ballerino e altrettanto grande direttore e coreografo. Il maestro Field, però, non avvezzo ai modi tutti italiani tra pressapochismo e sindacati, decise di andarsene. Fu così che alla fine di Agosto del ’74 mi telefonò Paolo Grassi, l’allora sovrintendente del teatro dicendomi di presentarmi l’indomani. E cosi cominciò. Dall’oggi al domani diventai direttrice. E ho dovuto creare un personaggio. Integro, severo. Ho dovuto imparare a dire no, spiegare a un ragazzo i motivi per cui non avrebbe dovuto fare danza. E non fu per nulla facile. Avevo solo trentuno anni e in tanti si domandavano il perché di una nomina giunta in età così giovanile. Ho dovuto dimostrare con tutta me stessa di essere all’altezza del ruolo che mi era stato affidato.

Le è costato crearsi questo personaggio?

No. È stato come se avessi dovuto interpretare un ruolo. Piuttosto mi è costato essere esigente con gli altri. Dapprima con gli allievi e poi con la direzione stessa. Mi adoperai molto per cambiare le cose e rendere la scuola di ballo un faro, non solo italiano, nella formazione dei danzatori. Chiesi e ottenni l’insegnante per gli uomini. Diedi importanza ai primissimi corsi e allo studio fin da piccolissimi. Inserii il diploma in danza contemporanea per favorire danzatori con fisici dotati, ma non adatti al balletto classico. Introdussi i corsi insegnanti e i corsi pianisti. Fui tutta d’un pezzo e ottenni ciò che secondo me era giusto fare. Ebbi comunque l’appoggio di Field e di Grassi, del quale godevo di grande stima.

La sua immagine di direttrice severa e inflessibile si è accompagnata, al contempo, a quella di persona molto capace e competente. La sua direzione ha fatto storia.

Di questa sono molto contenta. Nel tempo ho avuto tante manifestazione di stima e rispetto da parte di colleghi, allievi e genitori. Sono stata sempre onesta. Con me stessa e gli altri. Cercando di trovare in ogni caso soluzioni che potessero soddisfare la maggior parte, motivando le mie decisioni. Mi riconosco una logicità di pensiero che mi induceva a spiegare ogni mio atto e parola.

Facciamo un passo indietro. Cosa la spinse a entrare alla Scuola di ballo della Scala? Cosa la portò alla danza?

Sorrido ripensandoci. Da piccola non avevo mai visto un balletto né ascoltato musica classica. I miei genitori non avevano questo tipo di passioni. L’unica cosa che si faceva era ascoltare i gialli in radio. Dei quali, peraltro, avevo molta paura. Un giorno, camminavo con mia madre, e vidi su una parete una locandina della Scala. Attratta dai ghirigori e dagli arabeschi del manifesto, lessi dell’ammissione alla scuola di ballo del teatro. E dissi che sarei voluta andarci. Mia madre s’informò, fece l’iscrizione e andai a sostenere l’esame di ammissione. E fui bocciata. La famosa cartolina azzurra arrivò circa due mesi dopo l’esame e sancì la mia non idoneità. Pur non sapendo nulla di danza, per me fu una tragedia. Mia madre allora, conoscendo la famosa signorina Clivio che lavorava in Scala, mi portò da quella che allora era la bidella. In sostanza la figura dell’assistente dei ragazzi da me creata successivamente. Ebbene questa bidella, la sciura Bianca, mi vide nello spogliatoio. Mi guardò le gambe. Prese la cartolina, la strappò in mille pezzi e mi disse di presentarmi il primo settembre.

Una vera e propria favola.

Sì una favola. E l’amore per questo mondo crebbe giorno dopo giorno. Amavo, da bambina, scappare nel palco degli specchi a guardare le prove. Osservavo danzatori, coreografi e registi. E iniziai a imparare.

Cosa si aspettava in quegli anni della scuola? Quali erano i suoi sogni?

Non mi aspettavo nulla. Studiavo, imparavo, null’altro. Era tutto bello, affascinante. Ho vissuto quegli anni come un sogno. Molto duro però e difficile. Il mio secondo anno partecipavo alle opere. E al terzo anno ero già supplente del corpo di ballo. Tant’è che quando, nel ‘55, la Fracci interpretò la sua prima Cenerentola, io feci il mio debutto nel corpo di ballo. Ho un ricordo vivido di questa giovane danzatrice che aveva preso il posto di Violette Verdy contro il volere della direttrice di allora. Io interpretavo una delle dame al ballo. È stato un sogno per il quale ho lavorato molto. Anni durissimi, ma li ho amati.

In un’intervista disse che non ama la parola “sacrificio”. Mi spiega il motivo?

Secondo me il sacrificio presuppone qualcosa che si fa contro la propria volontà, e che impone grande fatica e rinunce. Certo, tutto vuole impegno e il lavoro, per quanto si ami, richiede grande responsabilità, ma siamo noi a desiderare le cose. E a lottare per ottenerle. Tutto ciò che è stata la mia vita, l’ho voluto io.

Che tipo era da bambina?

Ero una solitaria. Uscivo poco e amavo disegnare. Del periodo della mia adolescenza ricordo grande lavoro. Scuola, danza e poi ancora scuola e ancora danza. Ma ho bei ricordi. Mi sentivo felice perché tutto ciò che facevo, mi rendeva serena.

Da danzatrice aveva degli obiettivi? Che cosa sarebbe voluta diventare?

Amavo infinitamente danzare. Ma non era esattamente ciò che desideravo. Quando mi arrivò la proposta di Grassi, già mi ero stancata. Il ruolo della ballerina mi andava stretto. Mi sembrava di non poter dare più di tanto. Forse sarei potuta diventare prima ballerina, ma non mi andava di interpretare sempre gli stessi balletti. Allora, come adesso, desideravo fare sempre cose nuove. La passione per il mio lavoro non mi è mai mancata.

E da direttrice? Guardando dall’esterno la sua lunga direzione che cosa vede?

Vedo una donna piena di passione. In molti pensavano fossi troppo dura nelle mie posizioni. Ma non è stato per nulla così. Ho sempre cercato di guardare il futuro dei ragazzi. Insegnare loro la tecnica è la cosa più semplice. Con l’intelligenza e in base ciascuno alle proprie doti, il risultato si può facilmente ottenere. Ma vedere l’allievo nel suo quadro completo, comprendere i ragazzi, comunicare loro senza mai sostituirsi al genitore, è una vera è propria missione. Saper insegnare è una dote che va perfezionata attraverso lo studio. Io seguivo gli allievi quotidianamente. In alcuni casi in prima persona. In altri attraverso gli assistenti. Ma ciò che ha contraddistinto il mio lavoro è stata l’onestà totale. Non ho mai diplomato persone che ritenevo non fossero adatte a questo mestiere. Ci furono anni con tre diplomi assegnati contro, magari, dodici frequentanti. Gli stessi Roberto Bolle e Massimo Murru ebbero come votazione finale 28/30. A mio avviso, potevano, allora, fare di più. Oggi, seppure i fisici siano migliorati e più belli, si diplomano tutti.

Lei, invece, che ballerina era?

Mi definirei una danzatrice neoclassica. Di stampo balanchiniano. Lo stesso Roland Petit, giunto al Teatro alla Scala, mi scelse come sua musa, mostrando, attraverso me, le sue coreografie. Ero molto più alta rispetto alla media dei tempi e avevo linee lunghe. Una danzatrice atipica. Addirittura, tornata dalla Russia, fui messa in quarantena. Dicevano che ero cambiata. Che avevo mutato, in modo anomalo, il mio modo di danzare.

Quando andò in Russia la prima volta?

Dopo il diploma entrai subito in corpo di ballo. In seguito fui scelta, insieme con altre quattro ballerine, tra cui Luciana Savignano e Liliana Cosi, per studiare due anni al Bolshoi. Era la prima volta in cui si attuavano questi scambi tra la Scala e il grande teatro russo. Fu Ghiringhelli, l’allora sovrintendente, che riuscì a ottenere questa possibilità a discapito dell’Opera di Roma che sembrava, inizialmente, dovesse beneficiarne. Tornai poi una seconda volta per il corso insegnanti e una terza per studiare l’organizzazione dei teatri.

Lei ha attraversato il mondo della danza in varie vesti. Prima allieva, poi danzatrice, direttrice, coreografa. Un lasso di tempo lunghissimo in cui ha vissuto l’epoca d’oro del balletto. Come si sente, guardandosi indietro?

Mi sento molto fortunata. Ho vissuto il periodo più bello, per il balletto e per l’opera. Che amo.  Ma non cammino sulle nuvole. Non ho mai avuto molta stima di me stessa. E devo fare tutto al meglio per sentirmi bene, e dimostrare, a me in primis, e ai giovani poi, che bisogna sempre lottare, impegnarsi al massimo, e mettersi in gioco. Senza mai fermarsi alla prima difficoltà. In tanti anni di lavoro di ostacoli ne ho incontrati milioni. I problemi sono stati altrettanti. Politici in molti casi. Ma sono un cane sciolto e sono sopravvissuta. E adesso penso solo alle cose belle. E mi dico che ho avuto un sesto senso nel passare da danzatrice a direttrice. Sganciandomi da certe dinamiche. E regalando agli altri il mio sapere. Per esempio attraverso gli spettacoli didattici per le scuole. Che facemmo dal ‘75 al ’92, quando li tagliarono. Oggi sono felice della mia vita e continuo ad adoperarmi per i giovani. Supportandoli, presentando giovani coreografi. Voglio il meglio per loro.

Di recente è tornata in scena con la compagnia Balletto Civile. Come mai è tornata sulla scena dopo tanti anni?

Non mi mancava il palcoscenico. Ma ho voluto dimostrare che bisogna continuare ad adoperarsi e sfidare se stessi. Poi è stata un’esperienza che mi ha portato a scoprire un mondo diverso rispetto a quello cui sono abituata. Gli artisti della compagnia vivono in simbiosi. Mangiano insieme, e sono solidali nella loro vita privata. È stato tutto molto semplice. E per me nuovo.

La consapevolezza di avere avuto una vita “sopra le righe”, unica nel suo genere e a tratti straordinaria, rende immune dalla sofferenza?

No, si soffre ugualmente. Ma lamentarsi non serve. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentita vittima di alcune situazioni. Ma le cose brutte si devono dimenticare, buttare alle spine. Ho vissuto nei teatri più grandi del mondo. E, nonostante la fatica, e in alcuni casi il dolore, è stato tutto bello.

Lei indirettamente è stata un esempio per molti. Danzatori, artisti. La sua forza, la sua determinazione, per me mai confusa con altro, è stata uno stimolo a fare di più e meglio.

Io voglio proprio questo. Far capire agli altri che se si vuole, le cose si possono fare. Ci vuole grinta, passione. L’amore per qualcosa ti regala la forza di fare. Oggi, tanti miei ex allievi, che magari da bambini avevano paura di me, mi sono amici. Si confidano, mi raccontano delle loro vite e cercano ancora consiglio. Io per prima, da allieva della scuola, a volte, detestavo la mia direttrice Esmèe Bulnes. Ma oggi ringrazio di avere avuto lei e non un’altra figura. Ricordo ancora un complimento che lei mi fece. I suoi insegnamenti mi hanno temprata.

Se si dovesse riconoscere una dote in particolare che l’ha accompagnata in tutta la sua vita?

Sono intuitiva. Ho sempre fatto le cose prima degli altri. Non sapendo di essere all’avanguardia. Ho intuito per le cose e anche per le persone. Nel bene. Ciò significa che riesco a cogliere aspetti delle persone che possono portare a qualcosa di bello.

Le hanno fatto male nella sua vita?

Sì, molto. E ho reagito chiudendo i rapporti, scomparendo e ritirandomi in me stessa. Io non riesco a comprendere il male e ho paura di ciò che non capisco. Far male ad altri, a tutti i livelli intendo, è un qualcosa che non accetto. Nella vita c’è posto per tutti. Ognuno può ottenere le cose senza ferire, senza schiacciare gli altri.

Quanto è crudele il tempo quando vorresti che non passasse mai. Ore di confidenze, mani che danzano, sensazioni fatte di bellezza e memorie. Una splendida, fragile donna che fa capolino tra i ricordi della danzatrice, della coreografa, della direttrice austera e forte. La signora Anna Maria Prina è piena di dignità, fascino, curiosità infinita e severa tenerezza. Sarebbe stato bello che non di ore, ma di attimi infiniti si fosse trattato.

Crediti fotografici: Franco Covi 

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