Dal 11 al 23 Novembre al Teatro degli Arcimboldi Swan Lake di Matthew Bourne

di Fabio Paolo
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«Commossi dalle parole del figlio biforme, i genitori esaudirono il suo desiderio versando in quello specchio d’acqua un filtro contaminoso». Finisce così il racconto che il poeta latino Ovidio fa, dello sciagurato amplesso fra la ninfa Salmàcide ed Ermafrodito, il solo fra gli episodi d’amore del mito ad aver luogo presso un lago. Ermafrodito, giovinetto di mirabile avvenenza, figlio di Ermes e di Afrodite, mentre nuota in un laghetto limpido e rilucente sino al fondo, è aggredito da Salmàcide, che, stregata dalla nuda bellezza del giovane, gli si avvinghia, benché egli, ostinato, le neghi le sperate gioie d’amore, e infine con lui si fonde in un corpo che è insieme di maschio e di femmina. Ermafrodito, quando vede che quelle limpide acque lo avevano reso maschio a metà, implora, esaudito, i genitori: che quel lago dalle acque ambigue e suadenti celasse per sempre, nelle sue profondità, la maledizione di un amore infetto e prodigo di sciagura.

E proprio sulle rive di un lago, fra le ombre della notte, si reca, triste, il Principe dello Swan Lake di Matthew Bourne: è lì quando, d’un tratto, gli appare il Cigno, bellissimo. Si incontrano i loro sguardi: il giovane è subito, e inesorabilmente, vinto. Travolto da un amore vero e furioso che, poiché impossibile, già mesce il calice amaro e conduce verso il gelido abisso senza fine ch’è la morte. Ecco, quindi, l’imberbe Principe, imprigionato nella gabbia d’oro dei doveri di corte, nonché assiderato dal gelo di una madre incapace di dargli amore, rifugiarsi nel caldo, ma impossibile amore per il Cigno, che ai suoi occhi diviene ormai la sola, ultima chiamata per la felicità. Ma, quando, con un rapido e doloroso rovinare degli eventi, il Cigno, per amare il suo giovane Principe, giunge a perdere la vita, allora non resta altra via al Principe per realizzare il suo sogno d’amore se non lasciarsi morire, perché, nella morte, possa ritrovare, e per sempre, quell’intimo, sospirato e vivo abbraccio d’amore. Ovidio è scomparso. Ermafrodito pure. Ma non la maledizione del lago.

Sin qui, a quanto pare, niente di nuovo: un ubbidiente Lago dei Cigni, sulla familiare partitura di Tchaikovsky. Se non fosse che, nello Swan Lake di Matthew Bourne, il Cigno di cui il Principe cade innamorato è non già la fragile, soave Odette, prigioniera di un malvagio sortilegio, bensì un essere dalle sembianze per metà cignesche e per metà virili, aitante, seducente ed enigmatico. È dunque un amore altro, questo: un amore fra un uomo e un uomo.

Eppure, non è semplicemente un bel racconto trasgressivo, lo Swan Lake di Matthew Bourne, e neppure può venire liquidato come una qualunque versione dell’arcinoto Lago nella quale il corpo di ballo femminile è, però, stato sostituito da un ensemble interamente maschile. Certo, Swan Lake deve la sua notorietà anche a questa operazione, nonché all’audacia che una rilettura di tal genere del “balletto dei balletti” richiede. Tuttavia, come dicevo, non si tratta soltanto d’una audace e lucrosa provocazione: al contrario, il Cigno così mascolinamente raffigurato costituisce l’esito e al contempo lo stigma di un preciso e compiuto ideale di bellezza perseguito dal coreografo. «L’idea di un uomo che personificasse il cigno ha perfettamente senso per me – spiega Matthew Bourne – poiché la forza, la bellezza, l’ampiezza dell’apertura alare di queste creature mi evoca più facilmente la muscolatura di un danzatore che una ballerina con indosso un tutù bianco». Ora, tale suggestione è comprovata da un fatto naturale insito nella natura stessa del cigno: questo infatti, se è un animale magnifico, aristocratico ed elegante quanti altri mai, è però anche molto selvaggio, dal morso violento e brutale. Sicché il convertire in uomini i cigni restituisce alla natura stessa del cigno un aspetto che nella femminilità incondizionata e totale del Lago tradizionale mancava, cioè quello della perfidia e dell’aggressività. Ecco, allora, che i cigni di Bourne, seppur ligi a passi, forme, bellezza e disegni coreografici molto ben confezionati, incutono però un certo spavento e si spogliano di quella compiacenza rassicurante che invece è propria del consueto omologo femminino. Tanto che persino il cigno che poi diverrà oggetto del desiderio del Principe è, almeno inizialmente, non privo di alterigia e provvisto di una risolutezza istintiva e animalesca spiccata.

Matthew Bourne, insomma, indovina appieno la pericolosa ambiguità, ora fisica ora d’indole, del cigno: di più, egli ne fa una intuizione estetica ferace, in grado di germogliare in uno spettacolo cui la definizione di balletto calza a fatica. Ciò perché Swan Lake è una vera e propria pièce teatrale narrata sì per mezzo della danza, ma in cui il dramma di poesia, melancolia e passione si incontra con quell’ironia e quel sarcasmo così naturalmente cari al coreografo, con esiti che, talora, hanno sapore di musical. Oltre al tratteggio caricaturale di alcuni personaggi, ironica, e in parte irriverente, è, per esempio, la rappresentazione di una corte che in non pochi aspetti rassomiglia alla anglosassone “casa Windsor”, come pure non esente da un certo dissacrante sarcasmo è la messa in scena, all’interno del balletto, di un ballo dell’Ottocento.

Se dunque è vero che Matthew Bourne, pur non alterando né tradendo la partitura e il nucleo concettuale del Lago originario, cioè la ricerca di un amore irraggiungibile, apporta non poche né lievi innovazioni, in specie nel sistema dei personaggi e nella definizione di questi ultimi – in cui, per esempio, la maliarda Odile lascia il posto a un dongiovannesco figlio del Segretario di corte, in calzoni di pelle nera –, è altrettanto vero che, in questa rilettura risalente al 1995, Bourne dà un esplicito, perfetto e originale compimento a un sentire che, in merito al Lago, erano già nell’aria. Come non ricordare infatti la lettura dagli accenti profondamente freudiani che Nureyev volle imprimere al suo Lago dei Cigni, rivisitato per l’Opéra di Parigi nel 1984? Lettura, questa, che, seppur non apertamente, già gettava su Siegfried l’alone di una sessualità incerta. E, più ancora, come non ricordare l’alquanto audace Il lago dei cigni e i suoi malefici, presentato in prima italiana al Festival di Nervi del 1998 da Roland Petit e posto sulle spalle interpretative di Massimo Murru? «Il coreografo francese – scriveva Mario Pasi – immagina che il principe indeciso, Sigfrido, sia mutato in cigno da un maleficio dell’uomo in nero. Così il ballerino vive la tragedia di Odette, tra cigni che sono uomini e non ballerine».

Passino pure le versioni: ciò che, del Lago, non passerà saranno le sue acque e il loro sempiterno, ambiguo, fatale ristagno. Nell’I-Ching, il ristagno è il segno del cielo sopra la terra: il cielo, sopra, si ritira sempre più verso l’alto, mentre la terra, sotto, scende sempre più verso il basso. Le due forze che tutto generano si allontanano disunite, separate l’una dall’altra. È il tempo della stagnazione e del declino. È il tempo che prepara lo sfiorire dell’inverno, l’appassire, il morire di ogni vita.

 

Insomma, emozionante, audace, e comunque senza dubbio originale, la produzione di Matthew Bourne trasforma uno dei migliori balletti classici della tradizione in un elegante, spiritoso, toccante racconto contemporaneo e, dopo aver abbagliato il pubblico del West End londinese, a settembre, questa provocatoria interpretazione de Il Lago dei Cigni parte in un tour internazionale che porterà lo spettacolo nuovamente in Italia, in un’unica tappa milanese, dal 11 al 23 novembre al Teatro degli Arcimboldi.

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