Michele Merola: “Vivo la danza in maniera pura. è una magia”

di Francesco Borelli
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Michele Merola è un giovanissimo quarantaduenne. Un’anima gentile. Un artista pieno di entusiasmo che si adopera, senza riserve, per realizzare sogni e progetti. Danzatore, coreografo, direttore artistico di un centro che si distingue per qualità ed eccellenza.

Sei giovanissimo. E in poco tempo hai creato una realtà di danza che brilla per qualità di lavoro e gode di ampio riconoscimento da parte degli addetti ai lavori. Come si arriva a un risultato di questo tipo?

Il consenso che ho ottenuto negli anni è frutto di un lunghissimo lavoro, ha delle fondamenta molto forti che trovano le loro radici nel 1999. Ho costruito ogni cosa mattone su mattone. Forse il segreto è stato non esplodere improvvisamente ma imporsi con calma, nel tempo. Di certo poi, l’ensemble così com’è composto negli ultimi quattro anni è quello che funziona meglio.

Quale è stata la tua prima creazione per la MM Contemporary Dance Company?

La prima è stata “Reminescenze” nel 1999. Debuttò presso il Teatro di Guastalla vicino a Reggio Emilia. Mi ricordo che Donatella Bertozzi (giornalista e critico di danza n.d.r) mi disse: “Sei molto giovane ma penso che un giorno si parlerà tanto di te”.

Quali sono le differenze tra le prime creazioni e le ultime? Com’è cambiato il tuo modo di fare coreografia dal 1999 a oggi?

Agli inizi la mia attenzione era rivolta al passo. Volevo dimostrare che ero in grado di creare un mio linguaggio personale, ricco. Oggi, seppure ritenga il linguaggio coreografico importante, faccio maggiore attenzione alla drammaturgia, all’uso della musica, all’interpretazione. Oggi i miei balletti sono più puri, scevri da abbellimenti inutili.

Cosa ti porta a decidere di voler raccontare una determinata storia?

Solitamente il soggetto di un balletto trova origine in idee maturate nel passare degli anni. Il “Bolero” per esempio era nella mia mente da sempre. Ricordo di averlo visto alla televisione tantissime volte nelle Maratone d’estate di Vittoria Ottolenghi. Lo stesso vale per “Storia di una capinera”. Avevo letto il libro a scuola e mi aveva colpito. Comunque si tratta sempre di argomenti della vita quotidiana. Difficilmente mi allontano dal sentire delle persone semplici e normali.

Non credi che il senso dello spettacolo sia di allontanare lo spettatore dalla pesantezza del quotidiano e alleggerirlo da ciò che di triste o difficile si affronta nella vita di ogni giorno?

In parte è così. Ciò che è importante è il modo in cui una storia, anche difficile, è rappresentata. Mi baso sul quotidiano, è vero, ma lo racconto sotto forma di spettacolo. Devo tantissimo ad Amedeo Amodio e ai primi anni di Aterballetto. Mi disse una cosa che costituisce per me un grande insegnamento: “Ricordati sempre che hai un pubblico davanti, devi creare una scatola in cui quello che racconti deve avvenire, ma lo spettacolo deve esserci”.

Parliamo della tua storia. Perché hai iniziato a danzare?

Sono nato a Napoli e da piccolino ballavo sempre. Una volta trasferitici qui vicino a Reggio Emilia, i miei genitori m’iscrissero in una scuola di danza. Poi passai alla scuola di Liliana Cosi e lì rimasi sette anni fino al diploma. Ma Napoli è in assoluto la mia città. Continuo ad amarla e ci torno appena mi è possibile.

In cosa ti senti napoletano?

Amo le sue contraddizioni. È una città che sa essere piena di gioia e di malinconia insieme. È buona è cattiva al contempo. È piena di bellezza, ma ha vissuto e vive momenti brutti. Ed io sono un po’ così. Proprio come Napoli. Che secondo me è un po’ lo specchio dell’Italia.

I tuoi genitori appoggiarono le tue scelte?

Da subito hanno accettato le mie velleità e spinto affinché io facessi questo lavoro. Erano convinti, ed io sono d’accordo, che chi fa questo mestiere è, in assoluto, un privilegiato. È una persona che si eleva. E i miei erano rispettivamente un imbianchino e una casalinga. Nulla di più lontano da questo mondo. Gli devo molto.

Studiando da Liliana Cosi ti sei diplomato in danza classica. Com’è avvenuto il passaggio verso la danza contemporanea?

Già a scuola sapevo che, pur amando moltissimo il balletto classico, non avrei potuto ballare il repertorio. Non avevo le doti fisiche per farlo e poi la mia attenzione era rivolta verso altro. Uscito dalla scuola, entrai subito all’Aterballetto e vi rimasi per tutti gli ultimi anni di Amedeo Amodio e in concomitanza con la direzione di Bigonzetti, lasciai e iniziai a collaborare con altre compagnie. Tornato a Reggio Emilia, conobbi Mauro e cominciai a lavorare con lui all’interno dell’Ater sia come coreografo sia come maitre.

A che anno risale la tua prima coreografia?

Era il 1997. Feci la coreografia di un concorso. Il pezzo vinse e conobbi Fabrizio Monteverde col quale collaborai come danzatore negli anni successivi. È stata in assoluto la persona che mi ha insegnato più cose.

Da Amedeo Amodio a Fabrizio Monteverde fino a Elisabetta Terabust. Quanto sono stati importanti gli incontri nella tua vita artistica?

Mi hanno dato supporto e importanti consigli. Ma non ho mai avuto alcuna raccomandazione in merito. Nessun incontro mi ha portato a ottenere un lavoro. Tutto ciò che ho avuto, me lo sono guadagnato sul campo.

Mi parli del tuo rapporto con Elisabetta Terabust?

Andai a lavorare al Teatro San Carlo di Napoli al posto di Bigonzetti. Mauro non poteva e propose me alla Terabust. Lei si fidò e feci le coreografie di Adriana Lecouvrier. Fu amore a prima vista. Dopo aver visto la prima prova, mi propose anche di dare lezione di contemporaneo alla compagnia. È stata per me una persona importante.

Nel 99 nasce la compagnia. Perché hai deciso di chiamarla col tuo nome?

Forse perché non mi veniva in mente un altro nome. Pensavo che l’avrei cambiato col tempo e invece è rimasto quello. Oggi non lo cambierei. Ha portato fortuna.

Quando eri piccolino come pensavi saresti stato a 44 anni?

Prima che la danza entrasse nella mia vita credevo avrei fatto il medico o l’insegnante. Iniziando a studiare danza mi sono visto subito dall’altra parte. Amavo il ruolo dell’insegnante, del direttore, del coreografo. Mi incuriosiva tutto ciò che esisteva  dietro la realizzazione di uno spettacolo.

Come ti giudicheresti come danzatore?

Non saprei dirlo. Ero un danzatore di temperamento. Amavo i ruoli dinamici, in cui c’era molta interpretazione. Non certo i ruoli romantici.

Tra tutte le tue creazioni quale ti rappresenta meglio?

Amo tre balletti al disopra di tutti. Innanzitutto “Storia di una capinera” che ho rappresentato all’Opera di Belgrado, mai in Italia. Era un vero e proprio balletto con una struttura classica. Oggi sicuramente il “Bolero” che sento come un punto d’arrivo da cui partire nuovamente.  Quello che mi rappresenta di più invece è “Narciso”, lo spettacolo precedente al Bolero, al quale sono legato da un punto di vista sentimentale.

Oggi puoi definirti una persona di successo. Che risultati vorresti raggiungere in futuro?

Oggi l’obiettivo principale è quello di rendere la compagnia una realtà stabile. Per i danzatori e per tutti quelli che ci lavorano. E dare sempre più spazio ad altri coreografi, cosa che già in parte avviene.

Come ti rapporti coi tuoi colleghi?

Ho la fortuna di avere con tutti loro un rapporto di grande stima reciproca. C’è posto per tutti e mi sembra che gli attuali coreografi italiani siano molto diversi tra loro. Io da parte mia faccio ciò che amo e credo che tutti si possa andare avanti, senza mettersi i bastoni tra le ruote.

Come definiresti il tuo stile?

Per me fa parte della danza contemporanea. Altri definiscono il mio stile neoclassico. Io ho di base una tradizione classica ma l’ho portata avanti, facendola evolvere in uno stile che è mio. Ma non prescindo dall’estetica. Sia nella scelta dei danzatori sia nell’uso delle linee.

Se dovessi scegliere una danzatrice per un tuo balletto, chi sceglieresti?

Forse Alina Cojocaru. Mi piace moltissimo. Tra le italiane Letizia Giuliani.

Hai creato a Reggio Emilia “Agorà Coaching Project”, un corso di perfezionamento per danzatori notoriamente duro e di qualità. Ce ne parli?

Amo l’insegnamento. E dando lezione in numerose realtà italiane mi accorgevo che lo scoglio principale di un danzatore alle prime armi, seppur bravo, era rappresentato dalla difficoltà di trovare lavoro. Usciti dalle scuole i ragazzi mancano di esperienza di lavoro e questo impedisce loro di essere presi durante un’audizione. Conscio di ciò ho creato un corso di perfezionamento in cui i ragazzi hanno a che fare, ogni anno, con nove coreografi diversi che permettono loro di prendere dimestichezza con il lavoro, con la rapidità di apprendimento richiesta oggi ai danzatori e con la versatilità di stile.

Quali sono le caratteristiche che prediligi in un danzatore?

Durante una lezione o un’audizione capita che qualcuno attiri la mia attenzione più di altri. Se continuo a guardarlo è perché evidentemente ha qualcosa da dire. E devo scoprire cos’è.

Sei soddisfatto del tuo lavoro?

Si, molto. Ma cambierei delle cose. Ho commesso alcuni errori e oggi, con l’esperienza, eviterei di commetterli. Ma fanno parte di un percorso di crescita che non finisce mai.

Quanto è importante, nel tuo lavoro, essere imprenditore oltre che artista?

Io non mi sento imprenditore nel senso tradizionale del termine. Ma sono consapevole che le competenze in sala oggi non sono sufficienti. Mi riconosco però un’enormità di idee, e ho la determinazione e la forza per portarle avanti e realizzarle. Aspetto questo, positivo da un lato ma negativo dall’altro. A volte non mi godo appieno l’oggi perché già proteso verso ciò che farò domani.

Come vive la danza Michele Merola e tutto il suo entourage?

Viviamo la danza in maniera ancora pura. Per noi è sempre una grande emozione. Crediamo in ciò che facciamo e abbiamo, tutti, abbracciato una causa. E questo permette che si compia una vera e propria magia.

A fine intervista vado via e comincio a riflettere sulla persona. Michele Merola è un creatore della danza. Un uomo in grado di conciliare l’aspetto imprenditoriale a quello artistico. Un sognatore. La sensazione che ho avuto è quella di un uomo che semplicemente ha incontrato l’amore, e a esso si è legato come un poeta fa con i suoi scritti o un pittore con i suoi dipinti. Un uomo entusiasta, forte e gentile. Un artista che tanto ha fatto e che ha ancora tutto davanti e tanto da dimostrare.

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