Massimilano Volpini: “il mio senso d’eternità? lasciare un segno in chi ha lavorato con me”

di Francesco Borelli
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Massimiliano Volpini è nato come danzatore,  ma col tempo è divenuto un coreografo.  A detta di molti ciò è un passaggio naturale per tanti ballerini. E’ stato così anche per te?

Credo sia un passaggio tutt’altro che naturale. Essere danzatore risponde a talenti e capacità differenti dalla coreografia. Di certo chi monta un balletto deve essere padrone della materia danza e conoscere la tecnica per poi trasferirla in una propria creazione. Nel mio caso non si è trattato neppure di un passaggio da una professione all’altra. Già da danzatore creavo delle cose su me stesso; da una parte c’era il bisogno di stare sul palcoscenico e di ballare, dall’altra il desiderio di esternare un mondo che sentivo dentro.

Che tipo di danzatore eri?

Ero un danzatore di tecnica. Brillante e veloce, ma anche molto versatile. Tant’è che quando arrivava in Scala un coreografo contemporaneo ero sempre in prima linea. E non si trattava di una duttilità tecnica, ma mentale. Imparavo vedendo. Il danzatore classico risponde a  codici che fanno parte di lui, che ha assimilato negli anni della scuola. Non ha bisogno di vedere per riprodurre un passo. Per il danzatore contemporaneo è diverso. Deve osservare per acquisire una qualità di movimento che probabilmente non fa parte del suo background.

Come definiresti il tuo stile coreografico?

Una domanda davvero difficile. Cercherò di rispondere con un esempio.  Lo scorso mese di aprile è stato, da questo punto di vista, particolarmente indicativo. Da una parte il debutto in Scala con “Il giardino degli amanti”, dall’altro il debutto a Torino con “Pirandello Suite”. Due spettacoli totalmente diversi, uno molto classico l'altro più contemporaneo.

Ciò che oggi mi gratifica è che si riconoscano, in un mio lavoro, elementi a me riconducibili, certi passaggi coreografici, le atmosfere e la definizione dei personaggi. Ogni spettacolo è diverso, ed è necessario adattarsi ai danzatori, alla storia che si vuole raccontare ed al contesto lavorativo. Di certo nei miei balletti ricerco sempre la fluidità e la leggerezza delle legazioni – difficilmente in una mia coreografia vedrai grandi lift o atteggiamenti strappa applausi- perché tutto deve essere sfumato, armonico e dinamico. Lavoro sugli elementi caratterizzanti un’atmosfera nel tentativo di permeare lo spettacolo di un’anima, quanto più possibile simile alla mia.

Molti coreografi ricercano in modo spasmodico una qualità di movimento. Spesso e volentieri però celebrano l’aspetto estetico senza calarsi nella storia che raccontano.

Credo che prima di tutto si debba dare importanza alla narrazione e all’idea registica. In una suite di dieci minuti è normale che si dia maggior rilievo al linguaggio, quindi ai passi, ma in una serata intera devi avere un approccio differente. La coreografia deve essere, in questo caso, al servizio della storia, seppur narrata col proprio stile. Capita spesso però – ed è accaduto anche a me – di innamorarsi del linguaggio, di cercare ossessivamente il movimento bello. Oggi questa cosa mi ha stufato. Innanzitutto perché da un bel po’ di anni manca una nuova onda, un nuovo genio. Siamo ancora sulla scia di Killyan o Forsythe. Ora la mia attenzione è tutta sulla regia dello spettacolo. Sul tentativo di dare un’identità forte all’insieme degli elementi. Bisogna dare anima al proprio lavoro.

Hai parlato di Killyan, Forsythe e Mats Ek. Dopo un’esperienza ventennale ti definiresti un coreografo di successo?

Assolutamente no. Io ho avuto grandi opportunità, non ultima l’esperienza in Scala. Ma potrebbe essere semplicemente il picco di una carriera buona, ma non di successo. A me non interessano né la fama né la ricchezza. Bisogna, per queste cose, essere portati. Il mio successo è poter avere un’agenda piena che mi permetta di creare cose belle con danzatori di qualità.

Qual è stata la tua prima creazione?

Uno spettacolo intitolato “Buster”, dedicato a Buster Keaton.

Che differenza c’è tra “Buster” la tua prima opera, e “Pirandello Suite”, ultima in ordine di tempo?

“Pirandello Suite” ricorda, per tantissimi versi, “Buster”. La mia prima creazione aveva tante ingenuità e difetti, ma in essa c’era del fuoco vivo, era creatività allo stato puro. Quando crei per la prima volta, metti, all’interno del tuo lavoro, tutto il mondo che ti sei costruito. Poi nel corso degli anni non hai necessariamente altre “genuinità”. “Pirandello Suite” ricordava “Buster” perché ho lavorato in maniera serena. C’era un’atmosfera creativa e rilassata. Ne è nato uno spettacolo puro, genuino e scevro da sovrastrutture e condizionamenti.

Hai avuto, nella tua esperienza, collaborazioni prestigiose. Da Sabrina Brazzo fino a Roberto Bolle. Esiste uno “ scambio”  tra te e i tuoi danzatori?

Il privilegio che ho avuto è lavorare con danzatori di talento. Anche un giovanissimo allievo, bravo e talentuoso, ti arricchisce. Parlando delle grandi star mi hanno insegnato e mi ’insegnano ogni volta come sia importante essere perfezionisti, curare il dettaglio, essere precisi. Roberto, per esempio, non lascia nulla al caso. La sua grande dedizione è, per me, sempre una grande lezione.

In quale spettacolo, da te creato, ti identifichi maggiormente?

Ci sono produzioni che mi somigliano. “Buster” è una di quelle, seppure trattasi di un lavoro incompleto. Però esiste anche “Family zapping” realizzato con solo cinque ballerini, che racchiude in sé moltissimi aspetti della mia “poetica coreografica”. E poi “Pirandello Suite”. Spettacoli forse imperfetti, ma che hanno un’anima definita, e unici nel loro genere.

Il rapporto avuto con la Scala, prima come danzatore e poi come coreografo, dura ormai da tantissimi anni. Che cosa ti ha dato? Cosa ti  ha tolto?

Quando mi sono dimesso scrissi una lunga lettera ai miei colleghi in cui spiegavo proprio questo. Il rapporto col Teatro alla Scala dura da venticinque anni. E’come un matrimonio. E come in tutti i matrimoni ci sono stati momenti di sconforto e delusione, ma anche momenti bellissimi e di grande gioia. La Scala è una casa, un punto fermo. Sai che è lì. Ed è un privilegio farne parte.

Poche settimane fa c’è stata la presentazione della prossima stagione. E i danzatori del teatro si sono lamentati delle troppe produzioni contemporanee in programma.

Ogni volta che c’è un cambio di direzione si crea un po’ di “maretta” perché perdi i tuoi punti di riferimento. Il cambio avvenuto di recente, poi, è particolarmente importante perché un direttore/coreografo non c’è mai stato. Io credo che la Scala debba avere un repertorio il più ampio possibile e forse una figura direttiva che unisca entrambi i mestieri costituisce un rischio. Tutto dipenderà dalla buona volontà e dalle intenzioni del nuovo nominato.

Fossi stato al posto di Bigonzetti avrei proposto solo un titolo con le mie coreografie e non due. Sarei partito più in sordina. Ma forse ha ragione lui.

Cosa ti colpisce in un danzatore che scegli per una tua creazione?

L’intelligenza e la capacità di capire il senso di quello che sta facendo.

Ti ritrovi nella definizione di “cantastorie”?

Saper raccontare è molto importante per chi fa teatro. La sperimentazione fine a se stessa ha segnato il tempo. Ci sono state troppe bufale e il pubblico è stanco. O si trova un nuovo linguaggio per fare danza allo stato puro o si torna a un teatro narrativo. E le storie possono essere raccontate in mille modi.

Cosa vorresti che si dicesse tra vent’anni del coreografo Massimiliano Volpini?

Magari nessuno si  ricorderà di me da un punto di vista pubblico e il mio nome non sarà sui libri di storia della danza. Ma ciò che vorrei è che chi ha lavorato con me portasse dentro di sé un segno, seppur piccolo, dell’esperienza avuta insieme. Quello è il mio senso dell’eternità. Modesto forse, ma  importante, per me.

Ti faccio dei nomi e devi dare una definizione di queste persone. Iniziamo da Carla Fracci.

L’ho conosciuta già grande e l’ho vista ballare poco. Ma ciò che mi piace di lei è questa continua ricerca del sublime. La sua vita è stata plasmata sul mito.

Elisabetta Terabust.

La conosco molto meglio perché è stata direttrice in Scala in un momento importante per me. E’una tigre piena di passione ed energia.

Roberto Bolle.

Ha una serie di qualità come non le ho mai viste in nessun’altra persona. Tutti si limitano a sottolinearne la bellezza e la bravura. In realtà ha una quantità incredibile di doti mentali e caratteriali. Ha una visione totale sull’arte, è lucido, ed ha un approccio intelligente su tutto.

Alessandra Ferri.

Per me rappresenta la bellezza. Ha doti naturali che la rendono speciale, doti destinate a poche persone. Ed ha un tipo di movimento e leggerezza che ne fanno una ballerina unica.

Mauro Bigonzetti.

Coreografo di grande istinto. Danzai nella sua prima creazione in Scala, mi stupì la sua rapidità in fase di creazione.

E Massimiliano Volpini?

Come persona sono poco comunicativo. Ma se mi riconosco una dote, è la capacità di raccontare sulla scena. Definirmi è impossibile. Sono una persona serena. Non mi aspetto nulla, anche se soddisfatto, forse, non lo sarò mai. Per il resto, ai posteri l’ardua sentenza!

Crediti fotografici: Brescia/Amisano

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