Lia Courrier ci racconta l’importanza del ruolo: da allievo e danzatore a coreografo e insegnante. Con un po’ di umiltà

di Lia Courrier
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La vita della danza, dalla formazione al palcoscenico, potrebbe essere vista come una replica in miniatura dell’esistenza nella società: quando cominci sei un bambino, hai tante cose da imparare, dipendi dagli altri, in questo momento sei alla base della piramide gerarchica. Nel corso degli anni ci si muove da una piramide all’altra, in ognuna delle quali occupiamo posti differenti, qualche volta persino al vertice. Nella danza, come nella società, bisogna ricordarsi però che tutte le presenze nella piramide sono ugualmente importanti, non solo chi ne occupa la cima, ma anche tutti coloro che si muovono nei piani più bassi: ognuno ha il suo ruolo, fondamentale per il funzionamento dell’intera struttura.

Leggendo il titolo vi sarete immaginati che il numero di questa settimana avrebbe parlato dei ruoli da interpretare sul palcoscenico, mentre invece vi parlerò di quelli che la danza porta a occupare responsabilmente nel corso della vita, e di quanto sia importante comprenderne la peculiare significanza per essere in grado di ricoprirli sempre con la giusta presenza.

Si comincia come allievi, e in qualche modo si rimane tali per sempre. Il ruolo dell’allievo è molto facile da coprire all’inizio, quando si ha bisogno di una guida per imparare le basi del mestiere, mentre può diventare sempre più difficile in seguito, quando si diventa più esigenti sulla scelta dell’insegnante e sul materiale che questo propone. Ad ogni modo, quando siamo nella classe di un insegnante è sempre bene infilare le vesti dello studente con apertura e fiducia, per comprendere il punto di vista sulla danza che ci viene proposto, senza il filtro aberrante del giudizio. Una buona dose di umiltà è richiesta ai professionisti navigati per poter restare allievi, cosa inevitabile dal momento che tutti i danzatori prendono lezione per l’intera durata della loro vita lavorativa. Questo è fondamentale non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello emotivo, per rimanere radicati nel momento presente, dimenticando per un momento ogni successo o insuccesso: a lezione siamo tutti ugualmente impegnati a studiare per migliorarci, qualunque sia il nostro livello.

Si diviene poi interpreti, in qualche modo strumenti, utilizzati da un coreografo per rendere manifesto il suo racconto. Ruolo non facile quello dell’interprete, poiché bisogna trovare il giusto equilibrio tra la propria creatività personale e le richieste del coreografo con cui stiamo lavorando e con cui non è detto che condividiamo la visione o il gusto. Ciò che si attua spesso come interpreti, è una delicata negoziazione degli spazi, mediando continuamente tra le suggestioni che arrivano dall’esterno e il cercare di riconoscersi in ciò che si sta facendo, mantenendo la propria identità artistica, compenetrandola e adattandola al senso estetico del coreografo. Se è vero che l’ultima parola spetta a lui, infatti, e che sarà sua la firma sul cartellone, è il danzatore a dover andare in scena, in un modo che non lo faccia sentire a disagio e che non tradisca la sua essenza. Il coreografo, dal canto suo, dovrà essere in grado di trasmettere adeguatamente le informazioni ai suoi danzatori, evitando che l’idea rimanga solo nella sua testa. Può cercare di usare il suo stesso corpo per comunicare la sua richiesta, oppure le parole, le immagini, può proporre delle visualizzazioni: ogni mezzo può essere utile per portare i danzatori nel proprio mondo, dando loro del materiale su cui lavorare, che però dovrebbe avere come centro il movimento e il linguaggio del corpo, qualcosa che il danzatore possa tradurre in danza. In questa relazione tra coreografo e danzatore è molto importante che ognuno rimanga nel suo ruolo senza invadere il territorio dell’altro, a meno che questo non sia un desiderio di entrambi. Così come il coreografo si assume la responsabilità delle scelte per  sostenere con la sua presenza il lavoro dei suoi danzatori, allo stesso modo loro dovrebbero cercare di porsi in modo neutro e aperto davanti alle sue richieste, anche a quelle più folli, e con fiducia, poiché a volte bisogna saper attendere prima di avere una visione d’insieme di ciò che va costruendosi giorno dopo giorno. In entrambi i casi il giudizio dovrebbe essere messo da parte, per lasciare che la danza possa muoversi libera.

Si può decidere anche di divenire insegnanti a nostra volta. Considero una vera vocazione quella per l’insegnamento, che si sceglie come un profondo atto di generosità e di umiltà, dal momento che ci si mette al servizio di tutti coloro che desiderano apprendere, ponendosi sempre come dei principianti, per poter semplificare al massimo le informazioni e le correzioni da trasmettere e non cedere alla tentazione di issarsi sul piedistallo dell’onnipotenza o dell’onniscenza. So bene che l’umiltà non è più considerata una virtù nella società contemporanea, dove spesso viene scambiata per debolezza, ma penso che in questo mestiere in particolare sia da ricercare come una pietra preziosa, da usare come lente per osservare il cammino compiuto, quello da compiere e il luogo in cui si poggiano i piedi in questo momento.

Ad ogni ruolo la sua presenza, la sua dose di ego, le sue competenze. Non è automatico, con una semplice formazione da danzatori, essere in grado di gestire ognuno di questi ruoli. L’umiltà serve proprio a rendersi conto che è necessario spostarsi su un’altra sedia per poter vedere le cose con lucidità.

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