“La danza? Una grande scuola di vita”. Intervista a Cristina Amodio

di Giada Feraudo
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Cristina Amodio, artista di indiscutibile talento e guest teacher internazionale, si racconta per voi a Dance Hall News.

C’è un’esperienza, nella tua carriera di danzatrice, che più ti ha segnata?

Non c’è stata una cosa che mi ha segnata in modo particolare, ma l’insieme di tutte le esperienze.

Fin dai primi anni di studio ho avuto l’esperienza da allieva al Teatro Alla Scala, dove ho frequentato gli otto anni di corso: è stata una scuola di altissimo livello. Ai miei tempi, inoltre, l’Accademia era dentro il Teatro, non come adesso che è in una sede distaccata. Ricordo che  entravo alle 7, in effetti aprivo la scuola, perché avevo la prima lezione di danza classica alle ore  8.30 e poi restavo lì  fino alla sera, se c’era spettacolo fino a tarda notte. Durante la giornata, nella pausa pranzo, con il mio vassoio della mensa, mi  mettevo in un palco a guardare, perché magari era in prova qualche produzione, e quindi vedevo gli allestimenti delle grandi opere, le grandi personalità della lirica, i direttori d’orchestra, ballerini famosi, mi nutrivo di tanto e di tutto.  Sono entrata da subito in un mondo fantastico, che mi ha dato molto. E poi è impagabile la magia, la bellezza di vivere in un teatro dove c’è un calzolaio, una sartoria, una grande sala dove si dipingono le scene, il coro, l’orchestra, insomma, una fucina meravigliosa. Questa è stata la prima esperienza che mi ha fatto capire che volevo continuare in quel mondo.

E dopo il diploma alla Scala?

Dopo il diploma ho lasciato La Scala perché non volevo rimanere in un luogo fisso ma avevo intenzione di viaggiare e fare esperienze diverse: sono entrata allora all’Aterballetto, dove sono rimasta dodici anni. Quel periodo è stato meraviglioso perché ogni anno venivano almeno tre  coreografi ospiti (oppure i loro assistenti), tutti con stili diversi, per cui spaziavamo dal jazz al contemporaneo al classico: Marius Petipa, August Bournonville, George Balanchine, Glen Tetley, Lucinda Childs, Maurice Bejart, Roland Petit, Jyri Kylian, William Forsythe, Alvin Ailey, Joseph Muller, Kevin Haigen, Donald Byrd, Micha Van Hoecke, più tutte le tournée ovunque nel mondo. Cosa potevo desiderare di più?

Quando ho lasciato la compagnia ho cominciato la mia carriera da freelance ed insegnante anche se già da tempo rimontavo dei balletti in grandi teatri. Il passaggio da ballerina ad insegnante è avvenuto in maniera naturale: tanto amavo ballare prima, tanto adesso amo trasmettere ai miei allievi tutto il mio percorso artistico. Spero di donare un piccolo bagaglio che permetterà loro di diventare dei buoni ballerini.

Il fatto di aver lavorato spesso con tuo padre, nelle sue produzioni, è stata sicuramente una grande opportunità, ma essere la figlia di Amedeo Amodio è stata anche un’ulteriore difficoltà?

Sì, sempre. Tutti sapevano che ero “la figlia di”, è pesante da sopportare. A scuola di ballo era difficilissimo, tant’è vero che io a mio padre davo del lei in quel contesto. Poi bisogna considerare che a casa mia giravano sempre tanti grandi artisti, per cui io quando me li ritrovavo in teatro certamente non andavo ad abbracciarli per salutarli, anzi facevo finta di non sapere chi fossero. Tutto questo non è stato facile. Avere un cognome famoso è più un disagio che un vantaggio.

Tuo padre in questi frangenti ti trattava come gli altri o in modo diverso?

Mi trattava in modo diverso, ovvero peggio.

Tra i ruoli che hai interpretato come danzatrice in quale ti riconosci di più e perché, cosa ti ha dato?

Tutti i ruoli  che ho interpretato mi hanno lasciato qualcosa: alcuni un lato più romantico, altri più dolce, altri più aggressivo.

È normale che tutte le ballerine sognino di essere Giulietta, in effetti è un ruolo che ti coinvolge totalmente , che ti fa crescere artisticamente. Ma non solo quello. Ricordo sempre l’emozione per Apollon Musagète, di Balanchine. Lì veramente mi sembrava di essere nell’Olimpo: tutti vestiti di bianco, Apollo in centro, noi, le tre Muse, un’atmosfera così rarefatta … Posso anche parlare di Béjart, quando abbiamo fatto Sonate à trois,  c’era una grande ambiguità,  il balletto ero tratto da un testo di Sartre. Oppure “L’après-midi d’un faune”, di Amodio, un pas de deux  molto sensule, che ho ballato in tantissime tournée italiane ed estere. Era stato creato per lui e Luciana Savignano per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Ricordo che, quando lo stava montando, io ero piccolina, avevo cinque anni e, come capitava spesso quando era a casa, provava con me dei  passi e delle prese nuove che, grazie alla mia tenera età, venivano facilmente.

Ritornando al discorso di prima, ogni balletto ha lasciato un segno indelebile su di me.

Oggi sei un’insegnante più che affermata. Qual è il tuo approccio con gli allievi? Secondo te c’è un metodo migliore di altri? Che cosa è importante a tuo parere quando si insegna la danza?

Intanto è fondamentale aver ballato per capire che cos’è la danza, purtroppo essere solo dei tecnici che studiano i testi non è sufficiente: devi avere una conoscenza diretta, sapere cosa vuol dire andare in scena ogni sera, fare le tournée, essere stanchi e dover ballare comunque, sapere cosa significa fare la vita del ballerino. Io l’ho fatta e so com’è. Questa è la prima cosa.

Oltre a tutto ciò, alle spalle bisogna aver avuto una buona scuola accademica ed essere portati all’insegnamento. Poi dipende dove si insegna, la lezione è al servizio di una compagnia o di una scuola. In alcune compagnie è necessario dare una lezione più classica, in base al repertorio che stanno preparando,  mentre quando si va in una  più contemporanea è chiaro che si deve cambiare registro perché hanno un repertorio diverso. Tutto questo può avvenire se l’insegnante in primis è  versatile, in grado di capire di cosa ha bisogno il ballerino, ecco perché l’importanza dell’esperienza diretta.

Nella lezione metto il mio vissuto, non seguo sempre e solo una metodologia. La mia base è stata impostata con il metodo Vaganova, quindi è ovvio che ci siano tanti riferimenti inerenti ad esso ma poi, avendo lavorato con molti insegnanti provenienti da varie scuole ho delle contaminazioni americane, francesi, Bournonville, perciò alla fine è un insieme di quello che io so e che ho “masticato” per tutta la vita.

Come gestisci l’approccio con  un allievo che inizia lo studio della danza?

Con il metodo Vaganova, sicuramente, ma proposto con un approccio differente da quello che ho subito io quando ero alla Scala, dove il prototipo da seguire era solo uno.

A mio avviso oggi è cambiato il modo di porsi con gli allievi: una volta era spesso offensivo e rigido, proposto in maniera sterile, mentre oggi si cerca di documentare, di spiegare. Con l’aiuto dello studio dell’anatomia c’è una maggiore consapevolezza su come impostare il lavoro. Con il nostro corpo dobbiamo convivere tutta la vita e ogni corpo è diverso da un altro. La ricerca spasmodica della perfezione, la verifica quotidiana davanti allo specchio non è semplice da gestire psicologicamente. Per questo l’apporto positivo e non distruttivo di un buon insegnante è basilare.

Cosa insegna la danza oltre alla danza in sé?

Sicuramente la disciplina. Un allievo che frequenta una buona scuola di danza, anche se poi non diventerà un ballerino, avrà degli insegnamenti che serviranno per la vita. La danza aiuta ad avere una logica, ad andare a fondo, a perseverare, a riprovare per andare sempre oltre e a non fermarsi mai.

Il bello è questo: malgrado si ripetano i medesimi passi, se ogni volta non si cerca quel qualcosa in più per provare una sensazione diversa ci si annoia e si lascia perdere. Andare sempre oltre, questo secondo me è importante nel quotidiano in generale, in tutte le sue molteplici sfaccettature. Credo che la danza sia, per questo, una grande scuola di vita.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Io collaboro da otto anni con il D.A.F. (acronimo di Dance Arts Faculty), un consorzio artistico internazionale con coreografi, danzatori ed insegnanti, ognuno dei quali contribuisce con la sua visione ad arricchire ed affinare la sensibilità artistica di ciascun allievo-danzatore. Il direttore artistico del dipartimento di contemporaneo è Mauro Astolfi, che tra l’altro dirige anche la compagnia Spellbound Contemporary Ballet. Io dirigo il dipartimento di  classico. Attualmente abbiamo due sedi a Roma, una in via di Pietralata e l’altra in Via Assisi: il progetto è di portare avanti queste due sedi per formare danzatori: al momento abbiamo già diciotto allievi che sono in giro a lavorare.

Nel frattempo io continuo a collaborare con le compagnie europee come guest teacher.

Cosa ritieni ci sia di interessante in questo momento nel panorama della danza italiana a livello di coreografi, produzioni, compagnie? O cosa manca?

Manca forse l’investimento economico-culturale. Quando si deve tagliare qualcosa lo si fa sulla cultura, in cui è inclusa la danza, ed è un male perché vuol dire togliere ai giovani grandi opportunità di crescita. Una società di livello culturalmente basso può essere pilotata meglio. Bisognerebbe investire molto di più già a partire dalla scuola primaria, proponendo un’educazione anche rivolta alle materie “artistiche”. Talenti nostrani ce ne sono ma, come accade spesso, sono obbligati a migrare all’estero.

Fuori dall’Italia i teatri sono sempre pieni, da noi succede raramente. Il D.A.F. cerca sempre di spronare i propri allievi ad andare a vedere degli  spettacoli, è un buon inizio per formare un senso critico rispetto a quest’arte, per capire ciò che  piace o no.

Quando mi siedo in platea, si spegne la luce ed entra il direttore d’orchestra, sento i brividi come quando ero dietro le quinte che aspettavo di entrare in scena: ancora una volta rivivo la magia dello spettacolo!

Crediti Fotografici: Francesco Candi

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